Buraku mondai: un caso di discriminazione in Giappone

Oggi cambiamo un po’ tematica rispetto al solito, era parecchio che volevo scrivere qualcosa su un argomento abbastanza “scomodo”, come la presenza di gruppi minoritari in Giappone e la discriminazione esercitata nei loro confronti.
Sono questioni mai approfondite abbastanza, in Giappone poi è prassi piuttosto comune quella di evitare di affrontare tematiche scottanti, facendo passare tutto sotto silenzio. Tuttavia mi piacerebbe dedicare una serie di articoli alle questioni sociali giapponesi e ai vari casi di discriminazione; per ora intendo soffermarmi su un argomento a cui mi sono molto interessata e che peraltro è stato oggetto della mia tesi di laurea triennale, cioè il “problema” definito in giapponese buraku mondai, 部落問題, ovvero la questione dei buraku (部落).

Si tratta di un caso di emerginazione sociale che affonda le sue radici nel Giappone feudale dell’epoca Edo (1603-1868), periodo caratterizzato da una rigida morale neoconfuciana e da un assetto sociale strutturato secondo una netta suddivisione gerarchica della popolazioni in classi sociali. Un vero e proprio sistema di caste che ha portato a una totale immobilità sociale. Al di sotto delle 4 classi sociali dei samurai, contadini, artigiani e mercanti, si ponevano i cosiddetti fuori casta, chiamati con nomi carichi di disprezzo come eta 穢多 (letteralmente pieno di sporicizia) o hinin 非人(non-uomo). Considerati alla stregua di animali, essi non erano altro che coloro che si occupavano di svolgere quei lavori essenziali per la sopravvivenza della comunità ma considerati impuri, in quanto legati alla morte e al sangue: erano conciatori di pelli, becchini, boia. Attività considerate impure sia dal credo buddhista che shintoista, e che hanno condotto a una emarginazione totale e radicata nei confronti di chi svolgeva tali attività: essi infatti venivano isolati e costretti a vivere in ghetti lontani dalle città, per tenere a distanza il pericolo di “contaminazione”.

Foto di conciatori di pelli del 1873, tratta da Flickr @Okinawa Soba
Foto di conciatori di pelli del 1873, tratta da Flickr @Okinawa Soba

Bisognerà attendere l’era Meiji (1868-1912), epoca di rinnovamento e modernizzazione, per vedere la definitiva abolizione del sistema di caste, avvenuta nel 1869. Due anni dopo, viene emanato il cosiddetto Kaihōrei (editto di emancipazione) che equiparava lo status dei burakumin a quello degli altri cittadini. Questo ovviamente nella teoria, in pratica però gli antichi pregiudizi erano piuttosto duri a morire, e la discriminazione nei loro confronti continuò.

Come è stata combattuta questa discriminazione? Già nel 1922 venne creata la prima associazione nazionale per la liberazione dei Burakumin, chiamata Suiheisha (水平者) che si occupava di denunciare pubblicamente chiunque si macchiasse di atti o parole discriminatori verso i burakumin. L’associazione fu abolita negli anni del militarismo e della guerra, per poi venire ripristinata nel dopo guerra fu ripristinata col nome di Lega per la liberazione dei Burakumin, cioè la Buraku Kaihō Dōmei (部落解放同盟).

Nel 2004 la questione buraku è stata definita “sostanzialmente risolta”, ma è abbastanza evidente che certi tipi discriminazioni sono ancora lontane dall’essere completamente sradicate, soprattutto per quanto riguarda le generazioni più anziane e certe zone del Giappone, dove la discriminazione è ancora una realtà quotidiana. Oggi ovviamente non si usano più termini come eta e hinin, viene usato una parola molto più politically correct come burakumin (部落民)、che letteralmente significa “gente del burakucioè “il villaggio”, la “comunità” abitata da questi gruppi; potremmo definirlo ghetto, visto lo stato di segregazione sociale in cui vivevano i suoi abitanti.

E’ difficile stabilire con precisione quanti siano oggi i cosiddetti “abitanti dei villaggi”, si stima che rappresentino circa il 2-3% della popolazione giapponese (circa 2 milioni di persone) riuniti in 5 000 comunità, concentrate principalmente nell’area di Kyoto, Osaka, Nara e Hyogo, in quella zona che potremmo definire la culla della cultura giapponese. Costituiscono il principale gruppo minoritario presente sul suolo giapponese, oggetto come abbiamo visto di una discriminazione che ha origini antiche e complessa da spiegare, dal momento che non esiste alcuna differenza di tipo etnico o linguistico tra burakumin e il resto della popolazione giapponese. Infatti, nel caso dei burakumin, spesso si parla di “minoranza invisibile”, trattandosi di una discriminazione di tipo culturale, dettata da pregiudizi legati principalmente alla tradizione religiosa.

La discriminazione ha conseguenze principalmente in ambito lavorativo e matrimoniale; infatti un burakumin, seppur in possesso di titolo di studio universitario, fino a non molto tempo fa rischiava di perdere il lavoro se ne venivano scoperte le origini, e anche le unioni con discendenti di burakumin non venivano viste di buon occhio  (in alcune zone del Kansai, lo sono ancora oggi). Infatti, fino a pochi anni fa, esistevano agenzie di investigatori privati per indagare sul passato e la discendenza di un possibile compagno/a, o per informarsi sulle generalità di una persona ai fini della sua assunzione. Da ricordare, in particolare, un grosso scandalo del 1975, il cosiddetto incidente Tokushu Buraku Chimei Sōkan, quando si scoprì che in tutto il paese venivano vendute migliaia di copie di un registro che riportava tutti i nomi dei discendenti dei burakumin; pare che questo venisse usato anche da grandi aziende per decidere se assumere o meno un dipendente.

IL BURAKU MONDAI IN LETTERATURA

Numerose sono le opere letterarie che hanno parlato della questione dei burakumin, la più nota, sicuramente, è il romanzo Hakai (La promessa infranta), opera scritta nel 1906 da Shimazaki Tōson, considerato tra i primi esemi di naturalismo giapponese. La promessa infranta del titolo è quella fatta al padre dal protagonista Segawa Ushimatsu, giovane insegnante di provincia, di non rivelare mai e poi mai le sue origini di fuoricasta, e il nucleo del romanzo ruota attorno al lacerante conflitto interiore del protagonista: mantenere la promessa fatta al padre e vivere nel terrore di essere scoperti, o svincolarsi da quella promessa per poter vivere la propria vita libero, in una società, si spera, più giusta.

La promessa infranta è stato pubblicato in italiano dall’editore La Lepre con traduzione di Maria Gioia Vienna.

Un altro romanzo che affronta la tematica dei fuori casta, recentemente tradotto in italiano da Antonietta Pastore, è Il fiume senza ponti, romanzo di Sumii Sue (su Amazon a 15,30 €), edito da Atmosphere Libri.

Infine, parlando di burakumin non si può non citare uno scrittore che non ha mai nascosto le sue origini, cioè Nakagami Kenji (1946-1992), nato in un buraku della citta di Shingu, nella penisola di Kii, nelle cui opere volge la sua attenzione proprio alla comunità, trascrivendone usi e costumi e facendosi portatore della cultura buraku. La sua opera si concentra soprattutto tra la metà degli anni ’70 e la fine degli anni ’80, periodo in cui prende piede il cosiddetto Nihonjinron, il “trattato sui giapponesi” (o sull’essere giapponese), il cui obiettivo altro non era che affermare le caratteristiche distintive del popolo giapponese, che sfociano nel cosiddetto mito dell’omogeneità giapponese e della razza Yamato, cioè Yamato minzoku (大和民族) che trarrebbe origine da una linea di sangue ininterrotta che discende direttamente dalla dea del sole Amaterasu e che è rappresentata dall’imperatore. Da queste teorie si giunge alla nozione di “sangue giapponese” e ha portato a determinare il concetto di un lignaggio giapponese “puro” (appunto, la discendenza Yamato), dominante, contrapposto a coloro classificati come “altri”. Il discorso della “giapponesità” si basa quindi sulla credenza dell’unicità della “razza” giapponese e sulle caratteristiche distintive relative alla sua cultura, come l’armonia di gruppo.

Nei prossimi articoli sicuramente approfondirò l’argomento e l’opera di Nakagami Kenji, intanto vi cito i due libri tradotti in italiano:

 

Il mare degli alberi morti, edito da Marsilio, tradotto da Irene Tessaro (Su Amazon a 8,13 €)

Mille anni di piacere, edito da Einaudi, tradotto da Antonietta Pastore (Su Amazon a 14,84 €)

 

IL BURAKU MONDAI AL CINEMA

the-river-with-no-bridgeIl tema non è stato affrontato al cinema come lo è stato in ambito letterario, ma volevo segnalarvi un paio di film in particolare che trattano appunto la questione buraku (e che infatti sono tratti da due romanzi).
Il primo è Hashi no nai kawa (橋のない川), cioè Il fiume senza ponti (The river with no bridges) film del 1992 del regista Higashi Yōichi, tratto dall’omonimo romanzo di Sumii Sue.
La storia è ambientata nel Giappone feudale, protagonisti sono gli abitanti di Komori, eta che subiscono continue vessazioni da parte dell’intera comunità. Nonostante le difficoltà, riescono a rimanere uniti e, crescendo, cercheranno di emanciparsi da questa situazione.sennen-no-yuraku-millennial-rapture-wakamatsu-venezia69

 

Il secondo film è Sennen no yuraku (千年の愉楽), Mille anni di piacere (The Millenial Rapture), tratto dall’omonimo romanzo di Nakagami e diretto da Koji Wakamatsu nel 2012. Presentato alla 69° Mostra del cinema di Venezia, il film narra le storie dei Vicoli (roji), storie degli uomini del clan Nakamoto narrate dalla levatrice Oryu, che ha visto tutti questi uomini crescere, vivere e morire.

Sperando che abbiate avuto la pazienza di leggermi fino a qui,  vi saluto.

Daniela

Yamatologa per caso, traduttrice per passione, sognatrice di professione. Un vita in bilico tra Roma e il Giappone, e una passione per la fotografia, la cucina, i libri e i gatti.

6 Comments
    1. Ti ringrazio. In effetti non è un argomento di cui si parla molto, spero di poter approfondire la questione meglio nei prossimi articoli.
      Grazie ancora e a presto! 🙂

    1. Ciao, e benvenuta 🙂
      Purtroppo in italiano non ci sono testi che trattano l’argomento, se si escludono i romanzi che ho citato (che comunque non sono opere sociali) e pochi articoli di studiosi.
      Grazie per il commento e la visita.

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