IL MONDO DEI FIORI E DEI SALICI.
AUTOBIOGRAFIA DI UNA GEISHA
Titolo originale: Geisha. Kutō no hanshōgai
di Masuda Sayo
Traduzione di Silvia Taddei. Prefazione di Paola Scrolavezza
Editore O Barra O Edizioni
… la mia popolarità doveva essere stata un’enorme sorpresa, quasi come se a cavallo dato per perdente fossero spuntate le ali e avesse spiccato il volo. Ma che tu sia bella o no, una volta applicato un po’ di trucco bianco, a meno che il tuo viso non sia proprio devastato, diventi carina come tutte le altre. Invece, il saperti vendere, oppure no, quello sì che dipende dalle tue abilità.
Tra le varie icone del Giappone, probabilmente nulla come la figura della geisha ha un potere così intensamente evocativo, che rimanda immediatamente a un’idea di Giappone tradizionale, di kimono fruscianti, dello scalpiccio dei geta sul ciottolato dei vicoli di Kyoto, di volti bianchi ed eterei, di danze tradizionali, del suono disarmonico di uno shamisen.
Tutto il romanticismo, la grazia elegante e la raffinatezza a cui siamo abituati pensando alla figura della geisha e al mondo dei fiori e dei salici (karyūkai) in questo testo viene completamente stravolto e infranto dalla dura realtà, quella delle sofferenze patite da una bambina prima ceduta a una famiglia di un proprietario terriero come bambinaia, poi venduta dalla madre a un’okiya nei pressi della stazione termale di Suwa. Qui, dopo anni di maltrattamenti e di duro lavoro come domestica, e di apprendistato, la bambina ormai divenuta ragazza, fa il suo debutto come onsen geisha (温泉芸者), le geisha delle stazioni termali, considerate a un livello infimo nel mondo dei fiori e dei salici, un gradino di molto inferiore rispetto al mondo raffinato ed elegante delle geisha di Kyoto, di Gion e Pontocho.
Masuda Sayo ci racconta in uno stile semplice e diretto, ma proprio per questo così brutalmente sincero la sua storia, fatta di miseria, maltrattamenti e oppressione. La storia di una bambina senza nome e analfabeta venduta di fatto come schiava, privata della libertà e costretta alla mercificazione del proprio corpo. Ma è anche una storia di lotta per la sopravvivenza, nel Giappone a cavallo tra gli anni ’40 e gli anni ’50, quelli dolorosi della guerra e del dopoguerra, con tutti i suoi strascichi di povertà e di stenti, di una donna che nonostante tutto il dolore subito non si arrende, e dopo aver abbandonato la vita da geisha si adatta a qualunque tipo di lavoro per sfamare il fratello ritrovato, regalandoci un affresco di una realtà variegata e popolare, quella degli immigrati coreani, del mercato nero, di un mondo basso, povero e disperato, con la sua desolazione ma anche con le sue piccole gioie e la sua umanità. È la lotta per la sopravvivenza di chi cade e comunque si rialza, e nonostante tutto continua a cadere e rialzarsi, e a lottare alla ricerca di una felicità, o almeno una serenità d’animo. Di una vita vera e libera.
Non è un’opera di alta letteratura ma una testimonianza, vera e dolorosa, che ci svela tutta la sofferenza patita dietro quei volti truccati di bianco e la grazia espressa dalla loro arte, squarciando il velo del mondo dei fiori e dei salici.
Sono onesta, non ho mai particolarmente amato l’immagine della geisha, nonostante sia quasi impossibile non subirne il fascino, ma ho sempre trovato il confine tra intrattenimento e prostituzione piuttosto labile, e questa autobiografia ha più o meno confermato le mie sensazioni. Certo, mi si potrà obiettare che la realtà descritta da Masuda Sayo è quella umiliante e degradante delle onsen geisha, che nulla hanno a che spartire con le raffinate geisha di Gion, che incarnano l’assoluta perfezione raggiunta nell’arte dell’intrattenimento. E certo, poi oggi le cose sono nettamente cambiate, le geisha odierne sono professioniste che hanno scelto di condurre questa vita, di portare avanti e preservare una tradizione che nella realtà contemporanea rischia di perdersi per sempre. Eppure, non posso fare a meno di pensare che in passato le geisha di Kyoto, o quelle di Tokyo altro non erano che bambine vendute dai genitori, costrette a maltrattamenti e ad anni di duro lavoro e apprendistato e a una vita, che per quanto apparentemente sfolgorante, elegante e raffinata, era sempre la vita di donne mai veramente libere.