Proprio oggi ripensavo che sono già passati 10 anni da quando, ancora totalmente ignara di quello che mi aspettava, mi accingevo e iscrivermi all’università, 2 anni dopo aver finito la scuola, per seguire quella che era la mia passione: lo studio delle lingue. Ricordo che all’epoca non ero partita in quarta per studiare il giapponese, anzi, sapevo solo che volevo fare lingue, e che una di queste sarebbe stata una lingua orientale: all’inizio ero fissata con l’arabo.
Poi iniziarono a sconsigliarmelo tante persone, dicendomi che veniva insegnato malissimo, così mi scoraggiai, anche se un po’ il pallino dell’arabo mi è rimasto (e chissà oggi cosa farei se invece del giapponese avessi studiato proprio questa lingua). Alla fine, tornai sui miei passi: pensai, se non posso studiare arabo, allora mi butto sul giapponese, una lingua e una cultura che mi incuriosivano tantissimo, come è accaduto a tanti altri della mia generazione, cresciuti a pane, nutella e anime.
E quando dico “butto”, intendo proprio nel senso letterale della parola: studiare il giapponese, per me, è stato un completo lancio nel vuoto. Non sapevo nulla di questa lingua, a malapena conoscevo le parole sayonara e arigato, incerta tra l’altro del loro significato, e quel poco che sapevo, era ciò che avevo imparato a conoscere guardando la TV. Mi ero anche data un anno di tempo: se mi rendevo conto che per me era troppo difficile, o se non avessi superato al primo colpo l’esame di giapponese avrei lasciato perdere, e sarei tornata alle “normali” lingue occidentali. Il primo anno andò bene, lo studio della lingua mi divertiva e l’esame di giapponese I lo passai al primo colpo, e con un gran bel voto. Il resto, come si dice, è storia.
Oggi ritorna la rubrica #3cosegiapponesi e la dedico a una delle mie più grandi passioni: i libri e la lettura. Quindi volevo presentarvi 3 libri giapponesi, ma non tre libri qualunque: i miei 3 libri del cuore, quelli che mi hanno fatto scoprire un mondo, quello della narrativa giapponese a me totalmente estraneo fino a dieci anni fa, e che mi hanno permesso di entrare in contatto con una nuova cultura, una realtà completamente diversa e una nuova visione del mondo.
Ne sono venuti molti altri dopo di questi, non tutti ugualmente apprezzati e amati (personalmente, ho una grandissima incomprensione con Mishima e Kawabata, ma capisco che sono problemi miei), ma questi sono i tre libri che mi hanno fatto scoprire, e innamorare, di quella parte del mondo conosciuta come Giappone.
Titolo originale: Ochikubo Monogatari (Anonimo)
Traduzione: Andrea Maurizi
È stato il primo libro giapponese in assoluto che ho letto, per l’esame di letteratura giapponese dedicato alla cultura di corte.
Si tratta di uno dei primi romanzi (risale al X secolo) dell’antica corte di Heian, e fa parte del filone dei mamakomono (racconti di figliastre), tipico della letteratura Heian. È una favola molto simile alla nostra Cenerentola che racconta le vicissitudini della figlia di un Consigliere di Mezzo e di una Principessa imperiale che, rimasta orfana di madre, è in balia di una perfida matrigna che la relega nella stanza della servitù, affossata rispetto alle altre (chiamata appunto Ochikubo, nomignolo affibbiato alla ragazza), dei maltrattamenti subiti dalla matrigna fino all’incontro con il suo principe azzurro, Michiyori, a cui segue una storia d’amore, di fuga e di riscatto sociale. Ma la storia non si ferma all’happy ending finale del matrimonio, come nelle favole occidentali, ma prosegue, con la vendetta portata avanti da Michiyori nei confronti della matrigna, fino ad arrivare alla riappacificazione finale, secondo i canoni buddhisti. È una storia che si legge facilmente, ma soprattutto è un interessante spaccato della vita della corte Heian e dei suoi usi e costumi.
Sono passati ormai più di 10 anni da quando ho letto questo libro, ma ricordo ancora quella sensazione di stare leggendo qualcosa di familiare, ma allo stesso tempo lontano e “diverso”, che è proprio quello che più mi ha affascinato del Giappone e della sua cultura. Posso dire di essermi innamorata di questo paese, tra le varie cose, anche grazie a questa storia, apparentemente abbastanza banale.
Titolo originale: Noruwei no mori
di Haruki Murakami
Traduzione: Giorgio Amitrano
Il primo Murakami non si scorda mai. Questo è stato il primo romanzo di Murakami che ho letto, e finora è stato anche l’unico che ho veramente amato, probabilmente perché non c’entra nulla con le solite tematiche care all’autore, ed è lontano anni luce da quelle atmosfere oniriche e surreali tipiche di Murakami che a me, dopo tanti anni, onestamente iniziano un po’ ad annoiare.
Anche qui ci ho messo un po’ a ingranare con la lettura, tanto da averlo abbandonato per qualche settimana, ma quando l’ho ripreso, l’ho letto tutto d’un fiato, sperando che non finisse mai. È una storia introspettiva, un romanzo di crescita, di quella particolare, e delicata, fase di transizione dall’adolescenza all’età adulta, coperta da un velo di malinconia, e della memoria per qualcosa che ormai non c’è più. È una storia che a me ha commosso con una profondità che, purtroppo, non sono più riuscita a ritrovare in Murakami.
Titolo originale: In’ei raisan
di Jun’ichirō Tanizaki
Traduzione: Atsuko Ricca Suga
“Fra i sensi, l’Occidente ha privilegiato la vista… e ha così svalutato altre sensazioni…”
Ricordo che lo lessi per l’esame di letteratura moderna giapponese. Dovevo scegliere tre autori da portare, e scelsi Mishima (Il padiglione d’oro), Sōseki (Sanshirō) e Tanizaki (Il libro d’ombra). Questo libro, pur non essendo un romanzo, fu per me una folgorazione: breve e facile da leggere, ma fondamentale per comprendere quel delicato passaggio dall’età feudale alla modernizzazione, che in Giappone spesso ha significato “occidentalizzazione” dei costumi e delle tradizioni.
In’ei raisan (letteralmente: elogio della penombra) è un saggio scritto nel 1933 in cui Tanizaki difende il mondo della sensibilità orientale (“il mondo dell’ombra”) su quella occidentale (“il mondo della luce”), soffermandosi sul fascino dell’ombra, messo in pericolo dalla totale occidentalizzazione dei costumi. Vediamo diversi oggetti d’uso, tradizioni e costumi giapponesi messi confronto con gli usi e le abitudini occidentali. Tanizaki polemizza contro gli eccessi dell’illuminazione elettrica (occidentale) contrapponendola a un mondo avvolto dalla penombra, come quello della casa tradizionale giapponese avvolta in un gioco di penombre con paraventi e pannelli scorrevoli, che suggerisce, evoca ma non dice, che riflette la sensibilità giapponese e che viene letteralmente violentata da un mondo fatto di luce, di spazi bianchi e asettici. È il contrasto tra l’argenteria occidentale tirata a lucido e gli oggetti giapponesi, la cui patina lasciata dal tempo ne aumenta il valore estetico.
Si tratta di un saggio molto interessante per comprendere come è stata vissuta la supremazia occidentale dall’altra parte del mondo.
“…niente ho contro gli agi della civiltà moderna (elettricità, impianti elettrici), ma una cosa non so capire: perché ci rassegniamo ad abbandonare tutti i nostri usi? perché rinunciamo ai nostri gusti?…”
E voi, quali sono i vostri tre libri che vi hanno fatto innamorare del Giappone? O quelli a cui siete più legati? E com’è iniziato il vostro rapporto col Giappone, la sua lingua e la sua cultura?
Bellissimo post Daniela, mi ha messo tanta nostalgia.
Anche io come sai mi sono avvicinata alla lingua giapponese un po’ per caso, senza davvero esserne sicura e senza una passione di anni a sostenermi, ma oggi non potrei essere più felice di aver tentato quella sfida.
Dei tuoi tre libri ho letto solo Norwegian Wood, e concordo in pieno sia sul tuo giudizio riguardo all’opera e anche a Murakami. Per quanto abbia letto molti dei suoi lavori, ormai faticano a entusiasmarmi.
Per quanto riguarda la mia tripletta, il primo è facilissimo: Genji monogatari senza ombra di dubbio, nessun libro, né prima né dopo, mi ha mai coinvolta in modo così profondo, non ho mai sentito dei personaggi così vicini a me, tanto da rivedermi di volta in volta, in momenti diversi della mia vita, in alcune delle eroine create da Murasaki.
Il secondo, legato in qualche modo al primo, è Maschere di donna di Enchi Fumiko, che insieme al Genji ho trattato nella mia tesi di laurea.
Il terzo è Il fiume Ki di Ariyoshi Sawako, comprato quasi per caso tra le rimanenze di magazzino di qualche libreria per pochi euro, una bellissima storia che attraversa tre generazioni di donne.
Insomma, mi è rimasta nel cuore soprattutto la letteratura al femminile. 🙂
Bhe, per me Tanizaki è stato il punto di riferimento, il libro d’ombra in primis, ma non c’è un suo romanzo che non mi piaccia.
Ciao Sofia e benvenuta.
Tanizaki piace molto anche a me, amo moltissimo il suo stile per certi versi “poco giapponese” ed è uno dei pochi autori moderni che mi sembra realmente di capire.
Grazie per il tuo commento, e a presto 🙂
Ciao Elena, grazie per il tuo commento, capisco perfettamente quello che intendi dire. E immaginavo il tuo primo posto per il Genji! 🙂
Io l’ho letto, neanche tutto a onor del vero, troppi anni fa, vorrei recuperare con la nuova traduzioni della Orsi, speriamo di farcela prima o poi. Il fiume Ki è un romanzo bellissimo, Ariyoshi Sawako mi piace come scrittrice, suo è molto bello anche Kae o le due rivali, non credo purtroppo che abbiano tradotto altro in italiano.
Con Murakami ho un rapporto altalenante, credo sia l’autore di cui ho letto più romanzi, ma gli unici che ho veramente amato sono appunto Norwegian Wood, e Dance, Dance, Dance. Ultimamente, ogni volta che lo leggo arrivo alla fine sempre un po’ delusa e annoiata dalla lettura, mi pare che nel finale i suoi romanzi tendano a perdersi sempre un po’. O forse è stata troppo grossa la delusione con il III libro di 1Q84.
Al momento sono nella fase di stanca e per ora ho sospeso altre letture murakamiane.
A presto 🙂