In questo post vi ho già parlato della questione dei burakumin, i fuori casta del Giappone, oggetto di una lunga discriminazione che affonda le sue radici in epoca feudale. Il tema delle minoranze giapponesi è sempre poco affrontato, frutto probabilmente del mito della presunta omogenità sociale giapponese, ma se c’è qualcuno che rompe questo muro di silenzio è Nakagami Kenji (1946-1992), scrittore che non ha mai nascosto le sue origini dichiarandosi “figlio della vergogna”.
Nelle sue opere non c’è mai una vera e propria denuncia sociale sulla questione dei buraku; tuttavia Nakagami ci porta direttamente nel mondo dei Vicoli (roji), con le sue storie di emarginazione, lotta e violenza nel ghetto. I protagonisti maschili delle sue storie costituiscono una deviazione dalla norma e sono posti in relazione con la cultura giapponese dominante attraverso la “doppiezza” del loro stato: da una parte l’essere giapponesi, e dall’altra essere burakumin. Essi, nella loro violenza e nella situazione di emarginazione vissuta, costituiscono degli anti-eroi, dominati da impulsi non razionali e che mantengono un profondo legame con l’animismo arcaico. Centrale nelle opere di Nakagami è anche il ruolo svolto dal paesaggio, luogo in cui il mito e la storia si incontrano. La terra che Nakagami ci racconta è Kumano, luogo dal significato particolare, legato profondamente alla mitologia sacra del Giappone. Attraverso Kumano, Nakagami riprende una tradizione orale sepolta dalla storiografia ufficiale, dando voce alla sua minoranza discriminata.
Titolo originale: Sennen no yuraku
di Nakagami Kenji
Traduzione: Antonietta Pastore
Editore Einaudi
Una casta maledetta costretta a vivere nei Vicoli. Una famiglia di uomini bellissimi, sfrenati nei piaceri, sempre in bilico fra l’amore per la vita e l’attrazione per la morte, posseduti da una colpa che ignorano. Una vecchissima levatrice testimone dei loro brevi destini, incarnazione di un dolente fatalismo e di una saggezza ancestrale.
Premessa: nel 1978 Nakagami conosce l’anziana Tabata Ryū (chiamata anche Oryū no oba, zia Oryū), una donna di 88 anni di Shingu, che gli raccontò una serie di vecchie storie sulla sua comunità e sul suo defunto marito Reijo, monaco del buraku. Questo incontro fu molto importante per Nakagami, e divenne fonte di ispirazione per la sua opera, permettendogli di rinnovare la sua poetica dei Vicoli, a cui attribuisce una valenza mitologica.
Zia Oryū, levatrice dei Vicoli, diventa protagonista di queste storie e voce narrante delle vicende dei sei giovani uomini del clan Nakamoto, uomini di straordinaria bellezza destinati a morire giovani a causa del loro sangue “stagnante perché puro”. Lei è la voce dei Vicoli, di quel mondo chiuso in sé stesso che ormai non c’è più, che Nakagami tenta di far rivivere in letteratura. I sei racconti che costituiscono l’opera sono stati pubblicati a puntate a partire dal luglio 1980; in seguito, nel 1982, Nakagami li raccoglierà in un’unica opera sotto il titolo di Sennen no yuraku.
Il linguaggio di Nakagami è incisivo, una scrittura che non è mai consolatoria, ma nella sua asprezza descrive la brutalità e la violenza di quel mondo chiuso e asfissiante che lui definisce roji (Vicoli). Con le storie dei sei giovani Nakamoto – Hanzo, Miyoshi, Fumihiko, Ko, Shin’ichiro e Tatsuo – la cui discendenza determina la loro esistenza e il loro destino irreversibile (come la discendenza dei burakumin che ha portato alla loro emarginazione sociale), Nakagami rovescia i canoni classici della letteratura giapponese, partendo dalla rivisitazione del mito, e tornando appunto sul discorso della discendenza e dei legami di sangue, tema fondamentale nella sua opera.
I giovani Nakamoto sono, nella parole di Zia Oryū, esseri mitologici, non appartenenti a questo mondo, quasi di natura “divina”: nobili perché portatori di un sangue impuro che paradossalmente li eleva al di sopra dei loro simili, destinati a godere dei piaceri della vita per poco tempo, “simili alle cicale che si spengono dopo aver cantato a più non posso”. La natura passiva dei Nakamoto, che non sono mai in realtà padroni del loro destino, suggerisce che il motivo inesorabile, quello che Zia Oryū definisce “fato” (inga) non si spezzerà mai, riversando su di loro la maledizione della loro discendenza. Con questa opera Nakagami non riabilita affatto i burakumin, anzi abbiamo la reiterazione di determinati stereotipi che ruotano intorno al mondo buraku, come le connotazioni animalesche loro attribuite o la credenza comune che i burakumin siano violenti, dissoluti, vittime dei desideri della carne e persino dotati di genitali diversi e di un maggiore desiderio sessuale. Essisono pertanto ridotti alla loro fisicità e presentati in un’ambivalenza di violenza e desiderio.
Le categorie di appartenenza, in particolare quelle di genere, nei roji di Nakagami si confondono; il sangue che scorre nelle vene dei Nakamoto è simbolicamente collegato ad un discorso di femminilità, in quanto flusso percepito come abietto, ed estromesso dalla rappresentazione dominante: il sangue “corrotto” dei Nakamoto nega loro le pretese di “potere” e li ridefinisce in quanto oggetto di oppressione e discriminazione. Questa ambivalenza di fondo nella differenziazione uomo/donna, uomo/bestia, sacro/profano ci è mostrata nei protagonisti di questi racconti e nasce dal paradosso del sangue Nakamoto, che è sacro in quanto impuro.
Tutti e sei i protagonisti dei racconti sono accomunati dalla coscienza del loro destino, che determina la loro esistenza su questo mondo. La loro bellezza e il piacere che ne ricavano deriva noproprio da questa consapevolezza: essi sanno che il loro destino non dipende dalla loro volontà, è fuori dal controllo umano e hanno poco tempo per cogliere i frutti della vita, questo li porta a dedicarsi a piaceri smodati. E i Vicoli, mondo ristretto e claustrofobico che tutto include in sé e tutto perdona, sono uno spazio sacro e inviolabile all’interno del quale il confine tra uomini onesti e criminali si fa labile, e la scala di valori viene rovesciata; i Vicoli, spettatori e sfondo delle storie dei Nakamoto e della gente che li abita, sono “cantati” dalla vecchia zia Oryū, la quale non può intervenire in queste storie, o proteggere i giovani Nakamoto dal loro fato, è solo la testimone di quanto sta accadendo, diventando così una sorta di narratore onnisciente.
Nei Vicoli il linguaggio stesso acquisisce una sua valenza, diventando mezzo di unione tra i suoi abitanti e di opposizione a un mondo “centrale” che tenta di assorbirli. Fondamentale in tal senso è la concezione di una lingua dei roji, legata alla figura di Zia Oryū, che si distingue sia dal giapponese standard che dal dialetto locale di Shingu e che costituisce una lingua pre-moderna, precedente alla modernizzazione e all’avvento della tecnologia, simbolo di un Giappone che non c’è più.
E il linguaggio è usato come metafora della sopravvivenza della comunità, del riconoscersi con una propria identità culturale specifica rifiutando l’assimilazione con il resto della popolazione giapponese.
Altro tema avanzato da Nakagami è la fuga, o meglio il tentativo di fuga, dal mondo fatalista dei Vicoli, in cui i Nakamoto sono destinati a dissolversi, che è messa in atto da Hanzo, quando si reca dalla vedova di Ukishima, oppure da Ko l’orientale (La decomposizione dell’angelo), che tenta di creare una colonia di burakumin in Sud America, o ancora da Shin’ichiro (Racconto di Plata), anche lui in viaggio verso il Sud America, e infine da Tatsuo (Le ali di Kanna-Kamui), che si reca in un villaggio Ainu nel nord. Tutti loro provano brevemente il contatto e il confronto con un altro mondo, il mondo esterno, in cui i legami di sangue non determinano in modo ineluttabile il proprio destino e in cui è possibile ricostruire un’esistenza, ma questa speranza inevitabilmente crolla, i protagonisti possono solo riflettere sulla loro sorte, scolpita nelle strette strade dei Vicoli come in una pietra, dalla quale non c’è possibilità di fuga. I Nakamoto, chiusi tra terra e cielo, umanità e bestialità, assorbono le categorie dualistiche, risolvendole e perpetuandole. Sono questi dualismi a unire i Nakamoto e a portarli ad una morte precoce; tuttavia con la storia di Tatsuo, l’ultimo Nakamoto, le categorie dicotomiche vengono superate tramite la costruzione di un mondo “parallelo” ai Vicoli, i kodan degli Ainu. Tatsuo infatti si reca in Hokkaido, in un ghetto di Ainu dove fa la conoscenza di un giovane che gli somiglia e che in seguito porterà con sé nei Vicoli; tramite il suo “doppio” Tatsuo tenta di eludere il fato e scampare alla morte, ma lo sforzo sarà ancora una volta inutile.
Con l’ultimo racconto si varcano in confini dei Vicoli tentando un’universalizzazione della problematica della discriminazione e della alterità, non più circoscritta al micro-cosmo dei Vicoli, ma ampliata anche al mondo degli altri oppressi, posti ai margini, alla “periferia” del Giappone, la cui identità viene sottomessa da un potere “centrale”.
Ciò che colpisce dei sei racconti è la loro dimensione epica. Le storie si svolgono in un periodo storico ben identificabile (il dopoguerra), ma in realtà sembrano immerse in un passato remoto, le coordinate spazio-temporali si confondono conferendo a queste storie un’aura mitologica. Nakagami si rifà al folklore e alle leggende della sua zona di origine, e non a caso Mille anni di piacere viene identificato come monogatari, genere classico della tradizione letteraria giapponese, profondamente legato alla tradizione orale giapponese dei canta storie.