Passato bene le -ormai ahimé lontane- vacanze?
Per me sono state una pausa di relax, libera dal turbinio di impegni e nuove responsabilità degli scorsi mesi. Complice il – fu- tanto tempo libero, mi sono così dedicata ad aggiornarmi sulle ultime serie giapponesi disponibili su Netflix.
Anime, drama, film e serie tematiche dal Sol Levante: il portale si sta sempre di più consolidando come una risorsa di prim’ordine per queste produzioni.
Una panacea poter passare con pochi click da “Your Name” a “Aggretsuko”, virare sui racconti culinari di “Midnight Diner” o lasciarsi andare alla nostalgica narrazione di “Flavors of Life”, tutti in ottima qualità, multilingue e totalmente legali. Affermazione volutamente ironica per chi come me si ricorda le ore necessarie per scaricare in adsl, ma prima ancora in 56k, serie come “My Boss, My Hero” o “Densha Otoko” oppure l’ansia prima dell’apertura di un film scaricato da Torrent che nel nome, oltre il titolo corretto, aveva anche robe come “asian top japanese girls” o simili.
Senza perdermi in inutili vagheggi sul rapporto tra tecnologia e quanto tempo avessi una volta da perdere, la facile possibilità oggi di vedere serie in lingua originale, complete di sottotitoli, è un valore aggiunto non indifferente per lo studio del giapponese e, in particolare, per arricchire la propria competenza con tanti esempi presi da un contesto reale e contemporaneo. Aggirando così quegli odiosi adattamenti che ancora sono dure a sparire, come “cestino per il pranzo” per “obentō”.
Di solito, quando ho pazienza, adotto questo metodo: vedo la puntata in lingua originale senza sottotitoli, passando a rivedere i passaggi difficili con la trascrizione in giapponese e lì appunto sulle note del cellulare, le parole che non ho mai sentito. Infine, cerco il significato su dizionari on-line come weblio e ne approfondisco l’uso dagli esempi di banche dati bilingui come reversocontext.
Entrando nel tema di oggi, quest’articolo deriva proprio da queste ricerche. Ho pensato infatti di raccogliere alcuni tra i neologismi (o parole già esistenti ma ora usate con altri significati) più diffusi, nati dietro l’utilizzo delle piattaforme social.
Termini che ormai sono entrati nel vocabolario quotidiano e ai quali difficilmente riusciremmo a trovare delle alternative, come “instagrammabile”, “selfie”, “photobombed”, “like for like” ecc..
La soluzione più facile in giapponese per colmare il gap lessicale si dimostra il prestito dall’inglese, in costruzioni con il verbo する suru “fare “come in シェアする shea suru, “condividere” (letteralmente “fare share”), anche se non mancano soluzioni originali come nei termini che trovate di seguito.
INSTAHAE 「インスタ映え」
Nell’ultimo anno Instagram è cresciuto in Giappone tanto da superare Twitter come social media o SNS, per dirla alla giapponese, di riferimento.
In questa piattaforma dove lo storytelling delle immagini, lo still life e il bilanciamento dei colori sono tutto, ecco affermarsi come protagoniste le インスタ女子instajoshi, ragazze pronte ad immortalarsi in outfit curati per originalità o stile fin nei dettagli più minuziosi, alle prese con pose plastiche oppure davanti a cibi disposti per gradazioni di colore su sfondi più o meno naturali ma sempre patinati (due account che seguo @purplepinkp o @coco_pinkprincess).
Cosa guida la ricerca di questa perfezione fotografica? Una parola chiave su tutte: インスタ映え instahae ovvero “instagrammabile”: immagini che acquistano valore quando rispondono alle logiche della piattaforma riuscendo a emozionare, coinvolgere e ottenere tanti いいね (che vedremo la prossima volta).
インスタInsta, ovvio, è l’abbreviazione per Instagram mentre 映え hae deriva dal verbo 映える haeru ovvero, dal dizionario Daijirin, “spiccare tra gli altri per bellezza o aspetto particolare”.
UTSURIKOMU 「写り込む」
Personalmente adoro la capacità creativa dei verbi giapponesi quando, unendosi tra di loro, riescono a descrivere, con perfezione pittorica, aspetti dinamici di un’azione che rimarrebbero nascosti tra le pieghe di una sola parola.
Ditemi se ho torto ma, per esempio, verbi come 繰り返すkurikaesu (“girare” + “tornare” = “ripetersi”), 見上る“miagaru” (“guardare” + “alzare” = guardare in alto), 飛び去って行くtobisatteiku (“volare” + “partire” + “andare” = allontanarsi in volo) non ci regalano una rappresentazione quasi cinematografica di un’azione?
写り込む utsurikomu (写る utsuru ”Riflettersi” o “Essere ritratto” + 込む“komu “Inserirsi, infilarsi”) rientra tra questi verbi composti come forse quello con la maggiore popolarità.
Termine accurato per tutte quelle foto dove, consciamente o per sbaglio, c’è un elemento completamente fuori posto che “si infila al momento dello scatto.” Photobombed, appunto, diremmo in italiano, non avendo un termine corrispondente.
In giapponese possiamo scegliere se ricorrere al prestito inglese フォトボム fotobom oppure usare a piene mani il verbo 写り込む utsurikomu, che viene di gran lunga preferito (Su Google 18.600 risultati per フォトボム fotobum contro i 4.800.000 di 写り込む utsurikomu).
JIDORI「自撮り」
Rimanendo in tema di immagini fotografiche, riconoscendone i kanji, è facile capire il significato di questa parola, che racchiude un gesto ormai comune di tutti i giorni: 自分を撮る jibun wo toru, “Fotografare se stessi” ovvero “farsi un selfie”.
Da notare però che, mentre la parola セルフィー selfie fa però la sua comparsa all’incirca seconda metà anni 2000, le 自撮り写真 Jidori shashin “foto di se stessi”sono invece in Giappone famose da almeno trent’anni cioè da quando, agli inizi degli anni Novanta, le macchine per le プリクラpurikura hanno invaso ogni game center.
Sfido qui a trovare uno/a di noi che non sia caduto, almeno una volta, nella tentazione della cabina dalle tante vocine e personalizzazioni kawaii. Con buona pace di chi pensa che il selfie sia un’invenzione post Iphone.
Nel prossimo articolo, scopriremo insieme a Fabiana altri neologismi e parole social, intanto vi ricordo che potete seguire Fabiana con le sue pillole di giapponese su Instagram.
Commenti o domande sono sempre più che graditi.