Sabato 15 febbraio ho avuto modo di parlare in maniera più approfondita di Kurihara Sadako e della sua opera sulla bomba atomica.
Spero in futuro di aver modo di parlare nuovamente di questo filone della letteratura giapponese dedicato a un evento così drammatico, eppure spesso tenuto piuttosto a margine del dibattito letterario in Giappone.
Nel frattempo, vi segnalo questa bellissima intervista che mi ha fatto NipPop, associazione culturale di Bologna molto attiva nell’ambito della diffusione della cultura giapponese contemporanea, che dal 2015 organizza un festival interamente dedicato alla cultura pop giapponese (la prossima edizione, si svolgerà dal 22 al 24 maggio, con il tema #Retropop, Vintage Japan).
Ringrazio molto Paola Scrolavezza, e Martina Gagliano.
NipPop: In quanto appassionata e studiosa di letteratura giapponese con una particolare attenzione alla narrativa femminile contemporanea, in cosa si distingue secondo lei l’opera di Kurihara Sadako rispetto ad altre autrici della letteratura della bomba atomica? E rispetto alla letteratura prodotta sulla catastrofe di Fukushima? È possibile delineare una connessione tra la produzione letteraria di Kurihara e quella sul disastro dell’11 marzo?
Ho scoperto Kurihara Sadako per caso, mentre cercavo materiale sulla mia tesi di laurea, che verteva sulla letteratura della bomba atomica. La prima poesia che ho letto è stata Hiroshima to iu toki (Quando dici Hiroshima), che mi colpì moltissimo per il punto di vista inedito con cui veniva affrontato il tema della guerra e dell’atomica. Hiroshima non più e non soltanto come vittima, ma anche come carnefice. Una poesia densa di significato, che pone l’autrice in una posizione di rottura. Questo aspetto penso che la contraddistingua da molta della produzione letteraria di quegli anni.
Un altro aspetto che ritengo caratterizzi l’opera di Kurihara è l’ampiezza dei temi trattati. Nonostante si identifichi nella prima generazione di scrittori dell’atomica, di coloro cioè che hanno vissuto da adulti in prima persona l’esperienza dell’atomica e hanno sentito da subito la necessità di testimoniare l’evento (come Ōta Yōko, e Hara Tamiki), Kurihara è riuscita ad andare oltre la fase di letteratura delle macerie, prendendo Hiroshima e Nagasaki come punto di partenza di un discorso molto più ampio, che riguarda la nostra umanità, i pericoli di una guerra nucleare, l’educazione alla pace. Il futuro comincia da qui (1979) recita una sua poesia. Hiroshima e Nagasaki non più visti come luogo della tragedia, ma monito per il futuro dell’umanità. In tal senso, penso che la sua opera possa collegarsi alla produzione letteraria nata in seguito al disastro dell’11 marzo. Lei stessa in molti dei suoi saggi e poesie paventava i rischi dell’energia atomica, e dei disastri a essa connessi. La sua opera può leggersi come predittiva di quanto poi sarebbe avvenuto. Ciò che probabilmente distingue le due produzioni, è la diversa modalità di raccontare queste esperienze che sono “al di là delle parole”. La letteratura post-Fukushima infatti ha fatto della forza dell’immaginazione il fulcro della sua poetica. Raccontare le complessità e le storture di un mondo post-moderno richiedono altri modi di indagare la realtà e un linguaggio nuovo che permetta di rendere in parole quanto avvenuto, e di lanciare messaggi di speranza per il futuro.
NipPop: Cosa ha significato per lei il lavoro di traduzione di un’opera così impegnativa al livello di temi e problematiche affrontate? Ha riscontrato delle difficoltà nel rendere il carattere crudo e allo stesso tempo disarmante dei versi di Kurihara?
Nell’ambito dei miei studi, mi sono sempre interessata alle questioni delle minoranze e in generale alle questioni sociali che spesso non trovano ampio spazio nel dibattito letterario. Basti pensare quanto in Giappone la letteratura della bomba atomica sia stata di fatto sempre ostracizzata dall’establishment letterario, e relegata a essere letteratura di serie B. Sono pochi gli autori che vengono studiati a scuola, e ancor meno quelli tradotti in altre lingue. Per me è stato un lavoro di riscoperta, un modo per poter dare una voce a corpi “altri”. Kurihara ha vissuto una doppia ghettizzazione, in quanto donna e in quanto hibakusha, ma anche per le sue prese di posizione forti, che l’hanno messa al margine del dibattito culturale di quegli anni. Nelle sue poesie, spesso manifesta questo suo senso di isolamento e la disperazione che prova di fronte all’incapacità delle sue parole di toccare il cuore della gente. Questo suo “urlo disperato” è proprio ciò che mi ha portato a voler rendere la sua opera conosciuta. Affrontare un tema così duro e molto lontano dalla mia realtà non è stato semplice, in molti momenti non mi sono sentita all’altezza, mentre in altri l’approccio alla lettura è stato di sofferenza quasi fisica. Ci sono versi che ho fatto fatica a finire di leggere e poi tradurre per tutto il dolore che portavano con sé. E mi sono resa conto delle difficoltà provate da questi autori, che dovevano rendere a parole un’esperienza così devastante. Alla fine, penso di essermi lasciata guidare semplicemente da lei.
Kurihara utilizza spesso un linguaggio diretto e crudo, intervallato da un ampio uso di metafore, che riescono a imprimere ancora più forza al suo messaggio. La sua costruzione delle frasi è spesso lunga e articolata, non rendendo la lettura immediatamente accessibile, anche nelle sue poesie, in cui i versi spesso assumono la forma della prosa. L’italiano è una lingua che tende a spiegare molto, e da questo punto di vista ciò mi ha facilitato nella traduzione, allo stesso tempo però quello che mi premeva era di non sovraccaricare eccessivamente quanto Kurihara aveva voluto mettere in parole. È stato un lavoro di equilibrio, e spero di essere riuscita a rispettare e a dare il giusto valore alla sua opera.