La fragilità Yui l’aveva conosciuta soprattutto dentro di sé, in ogni interstizio di quegli interminabili anni, dal marzo 2011, al giorno in cui aveva incontrato Takeshi, e infine a quello in cui avrebbe finalmente preso in mano la cornetta del Telefono del Vento e avrebbe parlato con sua madre e sua figlia.
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Quel che affidiamo al vento, di Laura Imai Messina, edito da Piemme (su Amazon a 14,87 €), è il #Librogiappone di questo mese: un libro carico di emotività, che trae spunto da eventi e fatti reali (il terremoto e tsunami del Tohoku del 2011) per portarci in una dimensione in cui il mondo dei vivi e quello dei morti sembra in qualche modo poter comunicare. Un argomento che tocca tutti noi da vicino, e che non è un caso sia ambientato in Giappone, paese la cui cultura e tradizione dedica molto spazio al culto dei morti e degli antenati.
La storia trae origine da un luogo realmente esistente: un giardino immenso, chiamato Bell Gardia, sito sul fianco scosceso della Montagna della Balena, Kujirayama, a Ōtsuchi, nella prefettura di Iwate, una delle più colpite dallo tsunami del 2011.
Qui è installata una cabina, con un telefono non collegato ad alcuna linea telefonica, ma che permette alle persone che hanno perduto qualcuno di parlare con chi è nell’aldilà, alzando la cornetta. Il Telefono del Vento.
I nostri protagonisti sono Yui e Takeshi, entrambi hanno perso qualcuno (Yui la madre e la figlia nello tsunami, Takeshi la moglie per malattia, rimanendo solo con figlia di 4 anni, che non parla più dalla morte della madre), e il loro lungo viaggio, che si dipana nel corso di diversi anni, verso Bell Gardia permetterà loro di pacificarsi dal lutto, con la consapevolezza che si può solo andare avanti, e non c’è modo per riavvolgere il nastro e ricominciare.
Malinconia e struggimento. Ma anche tenerezza e leggerezza.
Perdersi per poi ritrovarsi, e ricordarci che la vita può e deve andare avanti.
Ho amato davvero molto questo romanzo, per me è stata una lettura bella e sofferta, che in alcuni punti facevo fatica a portare avanti, tanto il magone che sentivo salire dalle viscere, in maniera simile alla nausea provata da Yui quando vedeva il mare. Quel mare che l’11 marzo 2011 tutto ha inghiottito e portato via con sé, che ha spezzato la vita di Yui, come quella di molte altre persone che tutto hanno perso.
Per la prima volta dal giorno dello tsunami, accettò di dubitare della fermezza che si era imposta, della decisione di tagliare in due il mondo, quello dei vivi da quello dei morti.
A parlare con chi non c’è più, pensò, non si fa forse nulla di male.
Bastava accettare che le mani non toccassero nulla, che lo sforzo di memoria fosse tale da riempire le falle, che la gioia di amare si concentrasse non nel ricevere, ma solo nel dare.
Accettare il lutto subito e andare avanti. Trovare la forza di ricominciare. Dare una nuova forma al dolore. Ma come farlo? Come trovare un senso?
È nella concretezza delle azioni di ogni giorno, nella visione, seppur sfumata, di una possibile felicità futura: è nello stesso lutto e nel dolore che si propaga tra le pieghe di un’esistenza che non può più essere la stessa, e che va avanti per forza d’inerzia, che tuttavia nasce la speranza. Ma bisogna dare tempo all’anima di curare le ferite.
In fondo era quanto ci si augurava per tutti, che un posto dove curare il dolore e rimarginarsi la vita ognuno se lo fabbricasse da se, in un luogo che ognuno individuava diverso.
Un posto che per Yui è rappresentato da Bell Gardia, una vera cura dell’anima.
Ed è questa la vera magia in grado di scatenare questo luogo in chi vi si reca: anche se non potrà cancellare il dolore, permetterà di trovare un modo di tenere vivo il contatto con chi si è perduto, aiutando a rielaborare il lutto, e a ritrovare una nuova scintilla di vita, una speranza di felicità futura.
E se Da bambini la felicità si percepisce come una cosa; qualcosa che è lì alla nostra portata, pronta per essere afferrata e goduta, Da grandi si fa tutto più complicato. La felicità diventa una cosa laboriosa.
La felicità, quando c’è e anche quando non c’è, diventa soprattutto questo, una parola.
Una parola che Yui inseguirà per tutto il romanzo, cadendo e soffrendo, che le sarà restituita solamente alla fine, e che la riporterà alla vita.
“Le cose pratiche servono a mettere ordine”, dice la madre di Takeshi.
Ed è così, a volte abbiamo bisogno del concreto, di azioni e oggetti tangibili per poter tornare alla parte più reale e viva di noi stessi. Il Telefono del Vento, così, non è più soltanto un oggetto, ma diventa una fonte di rinascita, e speranza.
E questa, nonostante tutto, è una storia di speranza. Di resilienza, di vita e di amore.
Quel che affidiamo al vento è un romanzo che fa bene all’anima. Ne ho apprezzato tanto il tono positivo, che ci permette di assistere al ritorno alla vita dei protagonisti, e di tutti i personaggi che si recano in visita al Telefono del Vento, per parlare con chi non c’è più, per salutarlo un’ultima volta, per trovare un modo di tenere vivo il ricordo.
Così come ho apprezzato molto la volontà dell’autrice di escludere dalla storia il discorso di Fukushima e del nucleare, che ha accentrato molto il discorso di quella tragedia che è stata, prima di tutto, un disastro naturale.
L’11 marzo 2011 per tante persone è stata una data spartiacque, che ha cambiato radicalmente le loro esistenze, e questo romanzo è dedicato a loro, alle loro sofferenze, nella speranza che trovino un nuovo slancio vitale.
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