Seni e uova, di Mieko Kawakami

SENI E UOVA

Seni e uova di Mieko Kawakami è il romanzo che abbiamo scelto come #librogiappone di questo mese. Una lettura impegnativa, che ispira diverse riflessioni sul mondo della femminilità, e ciò che gravita intorno ad essa.

Il racconto è stato pubblicato la prima volta nel 2008 col titolo di Chichi to ran 「乳と卵 」e valse a Mieko Kawakami il premio Akutagawa; poi nel 2019 viene pubblicato Natsu monogatari「夏物語」(Storie d’estate, il titolo qui gioca col nome della protagonista, Natsu), una versione riveduta e ampliata del racconto del 2008, che è la versione che è arrivata da noi in lingua italiana.

Di Mieko Kawakami (Osaka, 1976) finora non avevamo avuto modo di leggere molto altro, ad eccezione di un racconto apparso nella raccolta Scrivere per Fukushima (pubblicata da Atmosphere Libri): questo infatti è il suo primo romanzo tradotto in italiano, pubblicato a settembre 2020 dalla casa editrice Edizioni E/O, con la traduzione dal giapponese curata da Gianluca Coci.

Una riflessione sull’essere donna in Giappone

Perché esisto? Che ci faccio rinchiusa in questo involucro? In fin dei conti, per il semplice fatto di essere venuti al mondo, dobbiamo respirare, mangiare e guadagnarci da vivere. È dura, non è facile.

C’è davvero questo gran bisogno di fare uscire un altro corpo dal proprio?

Mi sono avvicinata a questa lettura con molta curiosità e interesse, visto anche le tante critiche positive, e il ruolo dell’autrice, considerata un’icona del femminismo in Giappone. Tuttavia, devo dire che si tratta di una lettura che non ha soddisfatto pienamente le sue intenzioni, e che per me rimane riuscita soltanto a metà.

Il romanzo si divide in due parti (abbastanza distinte anche come tematiche): la prima si svolge nell’estate del 2008, la seconda circa dieci anni dopo. Di fatto, si tratta di due storie nettamente separate, che però ci permettono di indagare la complessità insita dell’essere donna sotto diversi punti di vista, fornendoci un’interessante spaccato della realtà attuale.

Nella prima parte, Natsu, nata a Osaka e ora residente a Tokyo dove cerca di realizzarsi come scrittrice, ospita la sorella Makiko e la nipote Midoriko per qualche giorno: Makiko, infatti, vorrebbe rifarsi il seno, ed è in cerca di una clinica a Tokyo che le permetta di realizzare questo desiderio. Lavora come hostess in uno snack bar, faticando ad arrivare alla fine del mese, e ha problemi con la figlia che da sei mesi non le rivolge la parola.

L’incipit sulla povertà ci fa subito capire che Kawakami mira a raccontare, senza mezzi termini, le difficoltà che si trovano ad incontrare le donne nella vita di tutti i giorni, in particolar modo se non si proviene da una classe abbiente.

A mio parere, l’aspetto migliore di questa prima parte del romanzo è essenzialmente nelle relazioni familiari, il rapporto tra le due sorelle e la nipote, di cui riusciamo a percepire la complicità e la forza dei legami. Nonostante quella cui assistiamo è una narrazione in cui di fatto non accade nulla di particolare, le accurate descrizioni che ci regala l’autrice, ci permettono da subito di entrare nell’intimità delle protagoniste, e fanno luce luce su tanti aspetti del loro passato e della loro infanzia. Il loro rapporto, e quello avuto con la madre e la nonna che le hanno cresciute, prima di venire a mancare quando Natsu era ancora molto giovane, rappresenta la vera forza della protagoniste, e resta, forse, l’aspetto più interessante e in cui è più facile sentirsi coinvolti e provare empatia.

Al di là di questo aspetto, però, la narrazione fatica a procedere e si rimane piuttosto neutri verso le vicende che coinvolgono le protagoniste. L’autrice è bravissima a far emergere tematiche estremamente attuali del mondo femminile : la fatica di arrivare alla fine del mese, e la lotta per affermarsi in un mondo decisamente ostile alle donne, specie se povere, ma anche le difficoltà della crescita e della pubertà, con Midoriko, appena dodicenne, che si chiude in un ostinato silenzio nei confronti della madre, e che affronta il delicato passaggio verso l’età adulta, in attesa delle prime mestruazioni, interrogandosi sulla femminilità. Ma anche l’accettazione del proprio corpo, di fronte a un modello imposto e imperante di “bellezza”, che guarda sempre a canoni occidentali.

La gente ama le cose belle, è inutile negarlo. Tutti vogliono vedere e toccare ciò che possiede grazia e armonia. Tutti sperano e desiderano diventare attraenti. Le cose belle hanno valore. Ma è indubbio che esistono anche persone che hanno poco o nulla a che fare con la bellezza. È così che funziona.

Tanti spunti di riflessione, che tuttavia non sembrano condurre da nessuna parte. Alla fine, ciò che rimane, è la possibilità di assistere da vicino a un breve momento della vita di queste donne, che ci rimanda al loro passato e alle difficoltà vissute nell’infanzia.

La lettura scorre abbastanza fluida, grazie anche alla capacità di Kawakami di rendere estremamente vivide le scene, che ci rendono quasi partecipi delle vicende delle protagoniste.

Tuttavia, è nella seconda parte del romanzo che la storia prende decisamente vita.

Riflessioni sulla maternità


Nella prima parte non succede molto, e tuttavia riesce a essere ancora abbastanza incisiva rispetto agli spunti di riflessioni offerti, cosa che al contrario non penso di poter dire della seconda parte che, a mio parere, allunga a dismisura il brodo per portarci nella centralità degli eventi solo verso la fine. Ecco, diciamo che la lettura ha iniziato a sembrarmi realmente interessante da pagina 350/400 che forse direi rischia di essere un po’ troppo per il lettore.

Ma veniamo agli eventi della seconda parte.

Sono trascorsi quasi dieci anni, Natsu nel frattempo è riuscita ad affermarsi come scrittrice, ha pubblicato una prima raccolta di racconti che ha avuto un buon successo, e tenta di scrivere il suo primo romanzo. Nel mentre, sviluppa un forte senso di maternità, ed è proprio attorno a questo tema che ruota gran parte della narrazione.

Il focus da cui si parte è quello dell’inseminazione artificiale (nello specifico, si parla di inseminazione eterologa, che avviene tramite donazione di seme) tuttavia, il discorso viene affrontato da un punto di vista abbastanza interessante, che è quello dei figli di questa inseminazione. Siamo soliti pensare alle questioni legate alla fecondazione e alla genitorialità sempre in ottica di chi attivamente decide o desidera avere un figlio. Ma chi invece “subisce passivamente” questa decisione? Sì dà per scontata la felicità di venire al mondo, ma è sempre effettivamente così?

Ecco allora che la strada di Natsu si incrocia a quella di Aizawa Jun e Zen Yuriko, attivisti e impegnati in prima persona a far conoscere gli effetti, in alcuni casi devastanti, della scoperta di essere frutto di un’inseminazione artificiale, e di non aver avuto modo di conoscere il donatore di seme.

Forse questo è stato, almeno per me, l’elemento più interessante dell’intero romanzo, che tende ad allungarsi a toccare tanti temi differenti, senza però mai entrare nel vivo e rimanendo a uno strato di superficialità.

Il senso ultimo di questo lettura, alla fine, l’ho trovato in questo aspetto: fino a che punto siamo in grado di assumerci la responsabilità di una nuova vita, affinché questa sia felice? Da dove nasce il desiderio di avere un figlio?

Non è tutto una grande scommessa? Si sa che nella vita esistono cose belle e cose brutte, momenti spensierati e momenti dolorosi, eppure la gente fa finta di niente e si illude che la felicità prevalga sull’infelicità. Ecco perché è sempre pronta a scommettere, perché in ogni caso è sicura di vincere.

Questo rappresenta un po’ il fulcro di tutto l’insieme di riflessioni che questo romanzo contiene. Non perché gli altri temi toccati non siano senza dubbio attuali e importanti, ma perché forse questo è un aspetto che, pur non essendo particolarmente scioccante o inedito, è una riflessione su cui raramente ci si sofferma.

Probabilmente qui entra in gioco il vissuto personale, perché si tratta di riflessioni che io stessa, in virtù della mia esperienza di parto e maternità, mi sono ritrovata a fare, e forse l’aspetto che più mi ha colpito, perché io stessa l’ho pensato varie volte, è quello della scommessa che si è sicuri di vincere. Un’idea, questa, che tende estremamente a banalizzare e semplificare una realtà molto più complessa e sfaccettata, e soprattutto che non può considerarsi universalmente valida per ogni singola esistenza.

Perché tutti continuano a farlo con estrema facilità? Perché mettono al mondo dei figli senza mai riflettere abbastanza, senza mai porsi domande? È assurdo, sembrano tutti convinti che non ci sia niente di più facile. Vanno avanti imperterriti col sorriso sulle labbra, senza rendersi conto che il difficile viene dopo e che sono coinvolti in qualcosa di persino violento e spietato.

Eppure, ancora, sento che manca qualcosa in questo insieme di riflessioni. È tutto molto condivisibile e interessante, ma raramente, almeno per quanto mi riguarda, ci si sente mai realmente “scomodi”, non ci sono punti di vista che in qualche modo riescono a intaccare il comune sentire, e l’aspetto più controcorrente rimane probabilmente quello che ho evidenziato, ma rimane una voce unica, e non poi così eccessivamente dissonante.

Altro aspetto che mi ha lasciato perplessa, è il ruolo maschile in tutto ciò che, di fatto, viene estromesso da qualunque ragionamento. Posso capirne l’intento, che è quello di dar voce alle donne su temi che le riguardano in prima persona e su cui per troppo tempo quasi non avevamo voce in capitolo, eppure questo ragionamento mi rende tutto il romanzo in qualche modo limitante, non permettendo di avere una visione di più ampio respiro. Lo stesso finale, infatti, risulta per me avere poco senso, a fronte delle evoluzioni della trama, e risulta quasi essere una presa di posizione a prescindere, piuttosto che frutto di una riflessione. Oltre al fatto che sembra quasi una soluzione di comodo, non certo una strada che possa poi essere in qualche modo condivisibile da altre persone.

Dunque, per tutti questi aspetti devo dire che è una lettura che non ho apprezzato come avrei voluto, o immaginato dalle premesse. Ci sono aspetti che mi sono piaciuti, e riflessioni interessanti, ma è mancato qualcosa. Forse anche l’eccessiva lunghezza non ha giovato, facendogli forse perdere di incisività (c’è da dire che anche questa mia recensione non scherza quanto a lunghezza, segno evidente che comunque nel bene e nel male, è un romanzo che riesce a far parlare di sé).


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Daniela

Yamatologa per caso, traduttrice per passione, sognatrice di professione. Un vita in bilico tra Roma e il Giappone, e una passione per la fotografia, la cucina, i libri e i gatti.

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