Semplicemente non sono riuscito ad adattarmi. Sono stato in grado di abituarmi a qualunque lavoro, ma alla vita stessa no. Né alle sofferenze della vita … né alla tristezza… e nemmeno alla gioia.
Tokyo. Stazione Ueno è un romanzo del 2014 di Yu Miri, arrivato in Italia quest’anno, nella traduzione di Daniela Guarino per 21 lettere (lo trovi su Amazon a 15,20 €).
Una lettura non sempre facile, né scorrevole, in cui si procede per giustapposizione di immagini e frammenti di vita e ricordi.
Una narrazione che mette in scena il Giappone degli ultimi anni, il Giappone moderno e progressista, una macchina perfetta che con i suoi meccanismi schiaccia chi non ce la fa.
Si oscilla tra presente e passato, tra la nostalgia di quello che è stato e le difficoltà del presente. È un tempo non lineare quello che l’autrice ci racconta, attraverso la storia di un uomo, Kazu, di cui ripercorriamo la vita che infine l’ha condotto a vivere presso il parco di Ueno come senza tetto.
La Tokyo delle Olimpiadi del 1964 e quella del 2020, la storia di uomini che, dal Tohoku, si muovono, lontani da famiglie e affetti, per prendere parte a quella crescita inarrestabile del Giappone, al progressivo abbandono di un tempo che non esiste più. E quindi, assistiamo a scene di matsuri, le feste tradizionali ancorate a un tempo arcaico del Giappone, e allo stesso tempo alla vita dinamica della città, ai suoi cittadini, uomini e donne che corrono avanti, lasciandosi alle spalle una parte di umanità dimenticata e negata.
La Tokyo dimenticata
Un tempo avevano una famiglia, e anche un lavoro. Non c’è nessuno che fin dall’inizio abbia vissuto in una casupola fatta di cartoni e teli azzurri, e nessuno è diventato un senzatetto per scelta. Se sono finiti in questa condizione, ci dev’essere stata qualche circostanza che ce li ha portati.
Il parco imperiale di Ueno, accanto alla stazione che da esso prende il nome, è la porta d’ingresso principale della metropoli dal nord del Giappone. Uno dei luoghi iconici della capitale, un parco amatissimo, specialmente durante la primavera, divenuto nel corso del tempo dimora di un gran numero di senzatetto. Esiste una vera e propria geografia dei corpi, di persone che costruiscono giorno dopo giorno una quotidianità, fatta di scarti e frammenti recuperati nell’attesa della fine.
Il contrasto stridente tra la vita regolare di chi passa per il parco, ammirandone i musei e la vitalità, correndo a lavoro, a casa, dagli affetti e quella di chi non ha più nulla, e si limita a trascinare la propria esistenza, provoca uno squarcio alla narrazione delle esistenze del protagonista, Kazu, e dei suoi vicini. È qui che le storie si alternano, le storie del Parco e di chi lo vive, in un susseguirsi di scene e frammenti di racconto che pian piano si dipanano, facendoci conoscere la storia di Kazu e quella della sua famiglia, in una sequenza fatta soprattutto di fatica, povertà, duro lavoro, lutti.
Kazu, nato a Fukushima, vissuto per gran parte della sua vita in povertà, è nel 1963 che si trasferisce a Tokyo come operaio, per lavorare alla costruzione della nuova Tokyo, in vista delle Olimpiadi. Una vita fatta di sacrifici, che l’hanno portato a trascorrere gli ultimi anni della sua esistenza a Ueno, da “invisibile”. In Giappone si parla di johatsu「蒸発」chi semplicemente “evapora”, persone che spariscono nel nulla, senza lasciare informazioni neppure a parenti e amici. Il loro scopo è fare tabula rasa del proprio passato, dei fallimenti, vissuti come un peso per la società.
Non manca mai l’umanità, ed è forse quello che colpisce di più del romanzo: Yu Miri con sensibilità e lucidità ci porta in questo mondo fatto di chi è stato lasciato indietro, ci fa sentire il dolore e la nostalgia di una vita che, anche se si fa “tutto bene”, come andava fatto, ci ripaga con schiaffi e dolore.
Io non ho mai portato foto con me. Però avevo sempre davanti agli occhi le persone, i luoghi, i momenti che non c’erano più. Mentre indietreggiavo davanti al futuro, vivevo guardando sempre solo al passato. Non perché la malinconia o la nostalgia fossero dolci, ma perché non riuscivo mai a restare a lungo nel presente, e il futuro era sempre spaventoso. A un certo punto mi sono reso conto di essere completamente immerso nel passato, che una volta trascorso non va da nessuna parte. Il mio tempo era finito, oppure si era fermato un attimo. Forse si sarebbe riavvolto per ricominciare daccapo, o io forse sarei rimasto chiuso fuori dal tempo in eterno.
Ciò che si percepisce nella voce del protagonista è un senso di accettazione passiva, come se ci si arrendesse agli eventi, e a una vita a cui non ci si è riusciti ad adattare. È la nostalgia di quanto è stato, e che si cerca di tenere a debita distanza, per non lasciarsi sopraffare dai ricordi del passato.
E sono i ricordi di Kazu l’espediente per immergersi nella storia del Giappone, cui assistiamo dal punto di vista di chi è rimasto ai margini, potendo solo contare sul proprio duro lavoro, e per un excursus su usanze e riti di un Giappone che sembra ormai relegato a un passato che non c’è più, una zavorra da cui il miti del progresso, e la corsa alla ricostruzione della città, sembra volersi sbarazzare, in un modo simile a quello del protagonista della storia.
Un romanzo che sono davvero felice sia arrivato anche in Italia, e che merita decisamente di essere letto. Un tema di cui si parla troppo poco, affrontato con un’estrema sensibilità da parte dell’autrice.