«Osservo con due sguardi: quello dell’essere umano e quello dello scrittore» le risposi.
«Riuscirai a scriverne? Di questo?»
«Un giorno dovrò. È la responsabilità dello scrittore che ha esperito tutto questo.»
Hiroshima, 6 agosto 1945.
Tutto quello che rimane dopo lo sgancio della bomba atomica sulla città è un’immagine di devastazione. Una città fatta di macerie. Una città arsa viva, come i suoi abitanti. E di uomini e donne, sopravvissuti, che come zombie si trascinano per questa città, cercando di capire cosa sia accaduto, e come andare avanti a vivere.
Perché alla fine, quello che rimane dalla lettura di Città di cadaveri (Shikabane no machi 屍の街) romanzo di Ōta Yōko pubblicato per la prima volta nel 1948, e presentato in Italia in una bellissima edizione curata da Inari Books, nella traduzione di Veronica De Pieri e con una prefazione di Paola Scrolavezza, è la forza dirompente della vita che, nonostante tutto, prova ad andare avanti. A ricominciare da quelle macerie, in gesti quotidiani e conosciuti, nonostante il dolore, nonostante la paura.
Città di cadaveri è un libro difficile da definire: né romanzo, né reportage, neanche memoriale dell’esperienza atomica. Nato da un’urgenza, che ha accomunato molti degli scrittori della letteratura della bomba atomica della prima generazione, coloro che sono sopravvissuti al bombardamento e che hanno sentito da subito la responsabilità di dover raccontare quanto vissuto in prima persona, rappresenta una delle più importanti testimonianze di quanto avvenuto a Hiroshima, nonché la primissima opera mai redatta sul bombardamento atomico. Come riportato nella postfazione della traduttrice, Veronica De Pieri, Città di cadaveri ha infatti visto la luce nell’immediato post bombardamento, scritto in fretta e in furia nei mesi successivi l’agosto del 1945, e ultimato a novembre dello stesso anno. Si accompagna, a quell’urgenza, l’angoscia della scrittrice di non riuscire a portare a termine la sua opera: in tanti, infatti, pur non avendo riportate gravi ferite, iniziano di colpo a morire. È la malattia atomica. Il pericolo insidioso delle radiazioni che, invisibili, si insinuano nella vita delle persone, e in molti casi le conducono a morte. Ōta ha paura che sarà colpita dalla malattia, una paura atavica, da cui non si separerà mai più, e che l’accompagnerà fino alla sua morte, nel 1963.
Città di cadaveri ha quindi il valore della testimonianza, e racconta quanto avvenuto nei quarantasei giorni dal 6 agosto al 30 settembre del 1945. Si percepisce, nelle parole, nello stile giornalistico della scrittrice, la necessità di oggettivare in qualche modo un evento dalla portata cataclismatica, e riesce a portarci con sé, in maniera estremamente diretta, senza filtri, tra le strade devastate della città di Hiroshima. E l’impressione che se ne ricava è che il testo sia quasi stato scritto in presa diretta, tra le rovine di Hiroshima, in mezzo agli edifici crollati e ai cadaveri carbonizzati. Tra coloro, ustionati gravemente, che chiedono flebilmente “acqua, acqua”, prima di spegnersi. Ōta osserva tutto quello che la circonda, trae le sue conclusioni, ci rende partecipe dei suoi pensieri, ma anche del suo dolore.
E ovunque, siamo circondati da cadaveri: uomini, donne, bambini, neonati: li possiamo quasi osservare insieme alla scrittrice, camminando tra quello che resta delle strade di Hiroshima. Cadaveri e macerie: questo è il panorama desolante cui assistiamo, inermi. Siamo con lei sulle rive del fiume nell’immediato post bombardamento, dove in tanti si rifugiano nell’attesa di capire cosa fare, e ancora ci muoviamo con lei, sua sorella e sua madre, verso il treno che le porterà fuori dalla città.
L’attesa di sapere come comportarci, in accordo con la disciplina prestabilita per casi eccezionali come quello, un’attesa che andava ben oltre il nostro controllo. Io stessa avevo perso la mia autonomia. In altre parole, quando ci fu il bombardamento, la libertà era diventata malsana, i propri pensieri erano divenuti ostacoli. Aspettavo le istruzioni come un burattino.
Ōta Yōko non indugia mai nel vittimismo, non cerca empatia, ma, in maniera schietta e asciutta, cerca di restituire l’immagine di quanto vissuto e provato in quei giorni, in un’opera che si traduce in un reportage giornalistico, e ci conduce nel cuore di Hiroshima, tra le vittime e i sopravvissuti (a loro volta vittime) che, con aria apatica, un aspetto più volte evidenziato dall’autrice, quasi fosse connaturato alla loro condizione di hibakusha (i sopravvissuti all’atomica), continuano a muoversi per la città.
Riflettei sul fatto che, finché sono in vita, gli esseri umani necessitano di trovare qualcosa da fare.
Ōta con sguardo lucido, ci rivela la devastazione straordinaria cui ha assistito, in una realtà che appare disumana e annichilente, e che, eppure, nonostante tutto, riesce a restituire all’umanità una sorta di speranza. L’essere umano si adatta, e trova modi di sopravvivere. E lo fa nei gesti degli sfollati che si attrezzano per ritrovare un barlume di normalità, ricordandoci la forza dirompente della vita che cerca di andare avanti, nonostante tutto.
Ōta Yōko (1903-1963) è originaria di Hiroshima. Dal 1930 avvia a Tokyo la carriera di scrittrice e reporter che la condurrà fino a Pechino. Nel 1945 torna a Hiroshima dove esperisce il bombardamento atomico di cui traccia una prima testimonianza nell’edizione dello Asahi Shinbun del 30 agosto. Il suo imperativo morale di raccontare l’atomica si traduce in Città di cadaveri (1945), il quale subisce la censura di stampa americana. A questo fanno seguito Ningen ranru (Essere umano a brandelli, 1951) e Han Ningen (Essere umano a metà, 1954).