Ikigai, wabi-sabi, kintsugi. Negli ultimi tempi sono numerosi i concetti e le espressioni tipicamente giapponesi che si sono diffusi nel nostro Paese, assurgendo quasi a delle vere e proprie “filosofie di vita”. Il modo giapponese di riordinare, di fare i conti, ma anche di trovare la felicità e la propria ragion d’essere.
In realtà, anche se questi concetti possono apparirci come un qualcosa di esotico e mistico, e in molti casi ne è stata fatta un’appropriazione culturale quasi indebita, si tratta di principi alla base dell’estetica giapponese che hanno permeato gran parte della cultura nipponica e che si sono manifestati attraverso diverse forme d’arte, modellando la mentalità e la civiltà giapponese.
Con la sua posizione di isolamento, il Giappone per secoli ha potuto mantenere inalterate le proprie radici culturali (che affondano nella cultura cinese), prima dell’inevitabile processo di occidentalizzazione di usi e costumi che poi ha avuto inizio a partire dal XIX secolo.
Alla base di queste concezioni estetiche c’è il buddhismo, con la sua nozione di impermanenza e transitorietà: un principio cardine che ricerca l’armonia nella semplicità e in cui l’essenzialità è alla base di tutto.
Vediamo dunque alcuni di questi concetti giapponesi difficili da tradurre in italiano e che negli ultimi anni hanno preso piede anche da noi, per cercare di comprendere meglio quale sono le loro origini e il significato più profondo.
1. Ikigai, la ragione di vita
Ikigai (生き甲斐) è una parola composta da iki (vivere) e gai (ragione), significa letteralmente “la ragione di vita, ragion d’essere”. Questo termine descrive i piaceri e i contenuti del senso della vita. Si tratta in realtà di un’espressione piuttosto comune, usata in modo casuale, senza consapevolezza del suo significato più profondo. E si tratta di un qualcosa alla portata di chiunque, non connessa al proprio successo professionale.
Ma che cos’è dunque l’ikigai? Lo si potrebbe definire come quel “motivo per cui alzarsi la mattina”, ciò che accresce la propria fame di vita e ci fa accogliere di buon grado l’arrivo di una nuova giornata. Non si tratta necessariamente di compiere grandi imprese o di ricevere particolari spinte motivazionali, quanto semmai di impegnarsi con dedizione nei piccoli rituali della routine quotidiana, che definiscono chi siamo. È da qui che si parte, dal ritrovare quel benessere che ci danno le piccole azioni quotidiane, e quel concentrarsi sul qui e ora, lasciando indietro il proprio Io, che è un aspetto centrale nell’estetica e nella filosofia giapponese.
A livello personale, infatti, rappresenta un fattore motivazionale capace di mandarci avanti; ma nella cultura giapponese in senso lato, l’ikigai ha anche a che fare con l’agire in armonia con l’ambiente e con le persone che ci circondano, mantenendo una semplicità d’animo.
Per approfondire l’argomento, puoi leggere quest’articolo.
2. Mono no aware, la bellezza della fugacità
Mono no aware (物の哀れ) è un altro di quei concetti profondamente legati alla cultura giapponesi che risulta difficile da arrivare a comprendere in pieno, e che indica un senso di turbamento d’animo, o sensibilità estetica. In italiano diremmo pathos.
Si tratta di un’espressione che esprime la consapevolezza dell’impermanenza (無常, mujō), o transitorietà delle cose, manifestando un senso di malinconia di fronte alla loro scomparsa e che nasce dalla critica letteraria per indicare un concetto che affiora in gran parte della letteratura giapponese.
Il concetto che esprime è quello di una partecipazione emotiva di fronte a determinate scene che ci rivelano la caducità delle cose, ricordandoci come tutto sia destinato a passare, morire. La filosofia espressa dal termine mono no aware unisce quindi incanto e disincanto; è uno sguardo calmo sulla fine oltre il velo della bellezza e del sentimento.
3. Kintsukuroi, riparare le ferite con l’oro
Il kintsugi (金継ぎ), o kintsukuroi (金繕い), letteralmente “riparare con l’oro”, nasce in realtà come tecnica di restauro per riparare tazze in ceramica per la cerimonia del tè, sebbene si sia poi sviluppato in una filosofia che potremmo definire un inno alla resilienza. Le linee di rottura, unite con lacca urushi, sono lasciate visibili, evidenziate con polvere d’oro.
La pratica nasce dall’idea che dall’imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore. Il kintsugi è vicino alla filosofia del wabi-sabi, anche questo un concetto profondamente connesso alla cerimonia del tè, che esalta la bellezza e la meraviglia dell’imperfezione, valorizzandone i segni di usura. Il concetto di kintsugi può riferirsi anche alla filosofia del mushin (無心, “nessuna mente”), che riguarda il principio di non attaccamento e di accettazione del cambiamento come aspetti della vita umana.
4. Wabi-sabi, la bellezza dell’imperfezione
Nell’estetica tradizionale giapponese, wabi-sabi (侘寂) rappresenta una visione del mondo incentrata sull’accettazione della transitorietà e dell’imperfezione. Si tratta di un concetto rivolto ad apprezzare la bellezza che è “imperfetta, impermanente e incompleta” in natura e che deriva dall’insegnamento buddista dei tre segni dell’esistenza (三法印, sanbōin), vale a dire l’impermanenza (無常, mujō), la sofferenza (苦, ku) e la vacuità (空, kū). Le caratteristiche dell’estetica e dei principi wabi-sabi includono asimmetria, ruvidità, semplicità, economia, austerità, modestia, intimità e apprezzamento sia degli oggetti naturali che delle forze della natura.
Si tratta di due concetti che si sono uniti a partire dalla cerimonia del tè, cha no yu. Il wabi caratterizza uno stile di vita, un sentimento di non appartenenza e di distacco da una società che non comprende l’eccezione e impone a tutti gli stessi atteggiamenti. Esprime un senso di vuoto e di essenzialità delle cose, derivando dal concetto di yūgen 幽玄, l’incanto sottile, che trasmette una sensazione di malinconia causata dalla presenza di due elementi (come un terzo colore indefinibile che si ottenga sovrapponendo due colori diversi) e introduce un qualcosa di rivoluzionario: la povertà ricercata e il rifiuto dell’ostentazione. Sabi manifesta invece l’accettazione di ogni evento, che riesce a trarre meraviglia dalle rovine.
5. Ma, la forma del vuoto
Ma (間) è un’espressione giapponese che può essere tradotta come “intervallo”, “spazio”, “pausa” o “spazio vuoto tra due elementi strutturali”. È un concetto estetico, filosofico e artistico che ha influenzato fortemente la cultura giapponese, manifestandosi in diversi aspetti della quotidianità, dell’arte o dell’architettura e che si riallaccia alla filosofia buddhista Mahāyāna, nella quale la dottrina del vuoto è centrale.
Torniamo quindi alla dottrina buddhista in cui il concetto di vuoto si esprime nella “vacuità” (空 kū), attraverso la quale il fedele raggiunge l’illuminazione. Il praticante deve raggiungere la consapevolezza che la “vera natura” delle cose e dell’uomo è il vuoto: tutto è in fondo “vacuità”, impermanente e assenza di un “io” concreto e stabile. Questa consapevolezza non si può raggiungere attraverso l’accumulazione continua di conoscenze teoriche, ma attraverso pratiche meditative.
L’elemento ma è infatti presente nelle arti derivate dallo Zen (nella poesia haiku, nella pittura e calligrafia, nell’ikebana, nel chado. È nel contrasto tra lo spazio vuoto e lo spazio pieno, nel dare pari dignità al bianco della pagina, o al vuoto dello spazio.
Alcune letture consigliate
- Lo spirito del Giappone, di Leonardo Vittorio Arena (BUR)
- Il piccolo libro dell’ikigai, di Ken Mogi (Einaudi)
- Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, di Giangiorgio Pasqualotto (Marsilio)